Storia delle carceri italiane “prima parte”

a cura di Luigi Giannelli

“Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”, diceva Voltaire
Non è così in Italia.  Da noi le carceri, per la maggior parte, sono fatiscenti e a dir poco medievali, ricavate da vecchi conventi e fortezze d’epoca. Poi sono nate le carceri d’oro, obbrobrio degli anni 90, vere e proprie discariche di cemento a cielo aperto, speculazione edilizia che costò allo stato più di una finanziaria. Con la costruzione di quelle strutture fu violato in primis il principio costituzionale dell’Art. 27
L’art. 27 contiene i principi fondamentali dell’ordinamento penale italiano.
Il principio della personalità della responsabilità penale: ciascun individuo è responsabile solamente per le proprie azioni e, quindi, non può essere punito per un reato commesso da altre persone. Questo principio mira a vietare il rischio che le pene possano essere trasmissibili (per esempio, che la pena per un reato commesso dal padre possa ricadere sui figli).
Il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva: ciascun cittadino italiano è dichiarato non colpevole fino a quando non sia stata emessa la sentenza definitiva che accerta la sua responsabilità penale. Allo scopo di garantire questo principio, quando un cittadino è sottoposto a indagine riceve un avviso di garanzia, che è uno strumento pensato per permettere alla persona indagata di conoscere i motivi dell’inchiesta e, quindi, di organizzare al meglio la propria difesa. Il principio di umanità della pena: la Costituzione obbliga i legislatori a non approvare modalità di pena che siano lesive del rispetto della persona (quali, per esempio, pene corporali)
Il principio della finalità rieducativa della pena: le pene non devono tendere solamente a punire chi si è reso colpevole di un reato, ma, se possibile, devono mirare anche alla sua rieducazione favorendone il reinserimento nella società.

La costruzione di quelle strutture ha reso un danno non solo economico ma prevalentemente sociale come la distanza dalle città, dai mezzi di trasporto e spesso a pagare le pene sono i familiari dei detenuti. Disagio che arguisce il dramma di chi vive questa situazione. In queste strutture soffre anche il personale operante, il quale, deve sopperire alle numerose reazioni che spesso sfociano in atti di violenza.

Il carcere fa paura e questo è comprensibile ;
il carcere è luogo di espiazione e questo è giusto;
il carcere è anche lo specchio della nostra coscienza e proprio qui mi soffermo, per meglio comprendere quanto possa essere efficace ai fini del recupero sociale.
Ricordiamo ciò che accadde 2000 anni fa: Gesù il bene, Barabba il male. L’uomo decise di crocifiggere il bene con tutte le conseguenze che ne scaturirono. Tornando al religioso, fu lo stesso Gesù a predicare che il bene e il male sono la faccia della stessa medaglia e a tutti è data la possibilità di  redimersi. Troviamo spunti di riflessione in parecchie opere letterarie tra cui il Mercante di Venezia.
“La misericordia non è un obbligo. Scende dal cielo come il refrigerio della pioggia sulla terra. È una doppia benedizione: benedice chi la dà e chi la riceve (Il mercante di Venezia, Atto IV, Scena I – anche come giustizia perfetta. Come conciliare le due cose?”. Se ci attacchiamo alla legge, se ci preoccupiamo soprattutto di punire il colpevole, non facciamo giustizia: “è solo rispondendo ad esso con il bene che il male può essere veramente vinto”. Perdonando il male, la persona è in grado di riconoscere il suo errore e di ravvedersi. Perché il perdono apre una breccia che porta luce nel cuore dell’uomo, risanandolo: “solo così la giustizia può trionfare, perché, se il colpevole riconosce il male fatto e smette di farlo, ecco che il male non c’è più, e colui che era ingiusto diventa giusto, perché perdonato e aiutato a ritrovare la via del bene”.

In tutto questo, necessita una vera innovazione nell’edilizia penitenziaria, separare i criminali incalliti dalle persone che hanno compiuto reati lievi per colpa e non per dolo. Si dovrebbe pensare che stivare 6 persone in venti metri quadrati non è per niente umano. Che le celle attuali non si possono definire camere di pernottamento ma veri e propri lazzaretto .
Il carcere non deve essere l’espressione vendicativa dell’uomo ma il luogo dove l’errore possa essere esaminato e ragionato con l’ausilio di tutti gli operatori in campo. Ognuno per la propria competenza e ruolo, con l’obiettivo di valutare il reale cambiamento del condannato, mettendolo in prova con tutti gli strumenti possibili.
Più delle volte in carcere le aree di competenza assumono una sorta di comparto stagno  nel quale si sprofonda nell’idiozia del potere  lasciando alle spalle le reali necessità dell’utente che di certo non otterrà la crescita auspicata dall’Ordinamento Penitenziario, o almeno, non concretamente, purtroppo con finzione.Il condannato deve partecipare attivamente al programma trattamentale, mentre invece, in moltissimi casi ozia senza dare fastidio e senza mettersi in mostra, convinto che tanto basta per essere considerato idoneo al beneficio.  Più delle volte, questo accade perché le strutture non permettono lo svolgimento dei tanti progetti che enti locali, volontariato e lo stesso istituto propongono ai fini di cui sopra.Il carcere è pericoloso nell’ozio, nella descolarizzazione e nelle carenti attività di tempo libero.In questa situazione, a governare è la violenza e l’ignoranza e nella meno peggio, l’organizzazione delinquenziale che diviene università del crimine. Ovviamente, faccio dei distinguo, e mi riferisco ai detenuti eccellenti, quelli sottoposti al 41 Bis e nell’alta sicurezza. È giusto che vengano isolati, in quanto promotori ed esecutori dei peggiori crimini. Isolamento necessario per evitare la radicalizzazione di specie.

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