Il testamento del Mago di Arcella. Storia di Gloria Battista, erede senza voce

Nella foto l’avvocato Carlo Affinito

C’è un’Italia che non ama i deboli. Un’Italia che finge di ascoltare, ma non sente. Che sorride nei corridoi dei tribunali, ma non guarda negli occhi. Un’Italia che non ha più stanze piene di giustizia, ma solo carte, faldoni, fascicoli impolverati. Un’Italia dove non è la verità a decidere, ma la penna più veloce, il notaio più ossequioso, l’erede più furbo.
In questa Italia vive Gloria Battista. Figlia di Antonio Battista – conosciuto da tutti come “Il Mago di Arcella” – è una donna che ha amato il padre prima che fosse un personaggio, prima che la vecchiaia e la malattia lo trasformassero in una preda. L’ha amato da figlia, senza aggettivi, senza secondi fini. E oggi combatte per difendere non solo un’eredità patrimoniale, ma una memoria, un nome, un principio: la verità.
Il foglio che uccide due volte
Tutto inizia con un foglio. Un documento dattiloscritto, senz’anima, senz’amore.
Recita in alto “atto di dichiarazione”. È stato pubblicato in uno studio notarile il 3 ottobre 2017, a Velletri, cinque anni dopo la morte del padre.
In teoria, dovrebbe contenere le ultime volontà di Antonio Battista, Il Mago di Arcella.
In realtà, non contiene nulla che abbia a che fare con un testamento. Nessun “lascio”. Nessun “nomino”. Nessun destinatario. Nessuna volontà post mortem. Soltanto una narrazione confusa, autocelebrativa, firmata da un uomo che, con ogni probabilità, non era più in grado di comprendere il mondo.
Eppure, quel foglio – che non è un testamento – ha prodotto gli effetti di un testamento.
Ha escluso Gloria.
Ha consegnato tutto, in modo subdolo e implicito, ai figli di secondo letto del Mago di Arcella. Non con disposizioni aperte, ma con omissioni astute, con giochi di parole, con verbi al passato che mascherano un futuro già deciso da altri.
Il sospetto che grida vendetta
Nel 2016 – un anno prima della pubblicazione del documento – i figli di secondo letto, Giovanni e Antonella, già lo citano nei loro atti giudiziari. Ne conoscono ogni dettaglio. Ne parlano come se lo avessero scritto. O peggio: come se lo avessero fatto firmare loro stessi, mettendo la penna in mano a un uomo che non era più capace di intendere. E qui non siamo più nel campo del sospetto. Siamo nel campo dell’indignazione.
Perché Antonio Battista, al tempo della presunta sottoscrizione (2008-2009), era un uomo malato. I certificati medici parlano chiaro: crisi ansioso-depressive, amnesia senile, reazioni di disadattamento, plurimi ictus. Era fragile. Confuso. Suggestionabile. Firmava perché glielo dicevano. Non parlava più. Non ragionava più. Non capiva più.
E Gloria, che oggi chiede giustizia, chiede semplicemente che questa verità venga detta.
Che quel foglio venga riconosciuto per quello che è: una finzione. Un atto privo di qualsiasi validità testamentaria.
La giustizia che non ascolta
Ma l’ingiustizia, in Italia, si consuma in silenzio. Il prossimo 4 giugno 2025, la Corte d’Appello di Roma non terrà udienza. Non ascolterà nessuno. Non ci sarà un giudice che guarda negli occhi. Solo “note scritte”. Solo tastiere. Solo file .pdf.
Così si decide oggi il destino di una famiglia. Non tra le mura sacre dell’aula, ma tra le mura fredde di uno studio e telematicamente. E Gloria, che avrebbe voluto dire: “Mio padre non era più lui”, non potrà più parlare. Non potrà più gridare. Dovrà scrivere. Dovrà ridurre la sua verità a una nota di trattazione, a un allegato processuale.
E questo è disumano.
Perché la giustizia, quella vera, non si fa senza voci. Non si fa senza ascolto. Non si fa negando alle persone il diritto alla parola. Quando un processo diventa carta, senza sangue e senza lacrime, allora non è più giustizia. È burocrazia. È arroganza. È viltà travestita da imparzialità.
Una storia scritta da chi ha le mani più lunghe
Nel frattempo, Gloria ha visto i beni del padre – i manufatti, i terreni, le quote societarie – passare in mani altrui. Ha visto atti pubblici stipulati senza che lei ne fosse parte. Ha visto l’immobilismo delle istituzioni mentre si spacciava per volontà testamentaria ciò che era solo un’abile operazione di esclusione.
Ha denunciato tutto. Ha documentato. Ha provato. Ha sollevato questioni di nullità, di simulazione, di donazioni dissimulate, di esclusioni illegittime. Ha invocato la collazione. Ha chiesto la divisione. Ha chiesto una perizia per ricostruire la massa ereditaria. Ma ha trovato solo ostacoli. Solo silenzi. Solo porte chiuse.
E, paradossalmente, è lei, la figlia vera, a dover dimostrare che il padre la amava. Che non l’avrebbe mai diseredata. Che non avrebbe mai firmato un foglio contro di lei. E tutto questo mentre chi ha beneficiato di quel foglio, ossia i figli di secondo letto, resta nell’ombra, protetto da una firma ottenuta chissà come, da un notaio a cui è stata consegnata la scheda in busta chiusa, da un giudice che non vuole sentire.
Il coraggio di dire: basta
Gloria non cerca vendetta. Non cerca denaro. Cerca verità. Vuole che venga detto, una volta per tutte, che il diritto non può piegarsi alla formalità cieca. Che una firma non vale se chi la pone non sa più chi è. Che una figlia non può essere cancellata dalla storia del padre solo perché non ha la voce più grossa.
Se i giudici non vorranno ascoltarla, lo farà la storia. Perché la giustizia, quando è negata, trova sempre un’altra strada. E ogni parola non detta oggi è una ferita che domani si aprirà in modo più profondo.
“Ci sono momenti in cui tacere diventa una colpa”. E oggi, tacere su ciò che stanno facendo a Gloria Battista è una colpa. Una colpa che grida.
E io, nel mio piccolo, ho deciso di non tacere.
Tre processi, una donna, un solo grido: giustizia!
C’è una donna, sola. Si chiama Gloria Battista, assistita dal suo difensore avvocato Carlo Affinito.
E c’è una verità, urlata inascoltata da anni. Si chiama giustizia.
In mezzo, tre processi.
Tre tavoli dove si gioca non solo l’eredità di un uomo, il Mago di Arcella, ma la dignità di sua figlia. Tre stanze dove si dovrebbe cercare la verità e invece si misura il potere di chi ha il notaio, di chi ha le chiavi, di chi ha scritto prima degli altri.
Gloria Battista non chiede favori.
Chiede che qualcuno, almeno uno, abbia il coraggio di guardarla negli occhi e dirle: “Sì, avevi diritto. Sì, hai ragione. Sì, tuo padre era tuo anche quando non parlava più.”
Ma andiamo con ordine. Tre processi, dicevamo.
Primo processo.
Roma, Corte d’Appello, r.g. 4380/2024.
La domanda è semplice. O almeno dovrebbe esserlo. Quel foglio chiamato “atto di dichiarazione” è o non è un testamento?
Gloria dice: no. E lo dice con carte alla mano, con diagnosi, con firme tremanti, con la voce stanca di chi ha dovuto ripetersi mille volte. Dice: mio padre non sapeva più cosa firmava. Dice: quel foglio non assegna nulla, non nomina nessuno, non dispone un bene. Dice: non è scritto da lui. È una trappola.
Dall’altra parte, il silenzio. O peggio, la freddezza del formalismo. Perché in Italia, se la firma c’è, allora tutto va bene. Anche se chi firma non sa più neanche scrivere il proprio nome.
E allora Gloria si difende. Chiede divisione, collazione, riduzione delle disposizioni lesive della legittima. Chiede un perito, ossia un tecnico, un essere umano che dica: “Ecco l’asse ereditario vero.”
Ma si è ritrovata, in primo grado, di nuovo davanti alla burocrazia muta. La perizia non è stata concessa, per fare prima, per togliersi il fastidio.
L’udienza del 4 giugno 2025 sarà, come previsto dalla riforma Cartabia, solo “scritta”. Niente voce. Niente aula. Niente sguardi. Solo files. Solo depositi di atti telematici con tastiere.
Secondo processo.
Sempre Roma. Corte d’Appello. r.g. 1006/2022.
Qui non c’è un foglio. C’è un’intera operazione patrimoniale. Trasferimenti immobiliari, fondi patrimoniali, atti notarili.
Il padre, dicono gli altri, aveva deciso così.
Ma Gloria si oppone. Dice: no, era tutto simulato. Un castello di carte costruito per togliermi il mio.
E qui la verità inizia a venire a galla. Perché un giudice del tribunale di Roma, nel 2021, ha già riconosciuto la nullità di certi trasferimenti. Gloria chiede solo che venga riconosciuto ciò che è già stato accertato: che quei beni non sono mai usciti davvero dal patrimonio del padre. Che non si può costruire un’eredità su una bugia.
L’udienza c’è stata, a marzo. Ma il verdetto tarda ad arrivare.
Terzo processo.
Cassazione. r.g. 1990/2020. Udienza 1 luglio 2025.
Qui si parla di terra. Di un terreno acquistato dai fratellastri di Gloria dal Comune di Frascati, con i manufatti sopra, per “liquidare gli usi civici”. Ma c’è un dettaglio: Gloria e il padre non erano presenti. Non furono chiamati, non furono coinvolti, non furono nemmeno informati.
Eppure erano occupanti. E quel terreno era anche il loro.
Ora lei dice: è tutto nullo. Perché una conciliazione che non include tutti gli interessati è una truffa travestita da compromesso.
Gli altri dicono: ormai è fatto. La terra è nostra. I fabbricati lo sono diventati per accessione.
Lei risponde: non ancora.
E la Cassazione dovrà decidere. Ma intanto, l’ombra si allunga anche sul giudizio principale, perché quel terreno, con i manufatti, fa parte dell’eredità contesa.
Tre giudizi, un solo volto.
Il volto di una donna stanca, ma ostinata. Il volto di chi ha perso un padre due volte: una volta per la morte, una volta per la carta.
Perché non c’è cosa più violenta di veder manipolare la volontà di un genitore. Di sentirsi dire che quel che ti spettava è svanito per un documento scritto chissà da chi. Di guardare il nome di tuo padre usato per escluderti. Per diseredarti. Per negarti.
Ma Gloria è ancora qui. In piedi, con il suo avvocato. Con le carte in mano. Con la verità negli occhi. E con una frase incisa nell’anima, che non ha bisogno di perizie né di testamenti: “Mio padre non avrebbe mai voluto questo.”
E allora lo diciamo anche noi. Anzi, lo gridiamo.
Non è Gloria a dover provare di essere figlia.
È lo Stato a dover dimostrare di essere giusto.
Perché se anche la giustizia non ascolta più, allora resta solo la parola.
La parola che resiste.
La parola che denuncia.
La parola che, un giorno, farà vergognare il silenzio.

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