Psicopandemia e timori negli adolescenti: comprendere per agire.

Viviamo in tempi difficili, non c’è che dire. La pandemia da coronavirus ha stravolto la nostra quotidianità, la nostra, salute, il modo di relazionarci con il prossimo e di dimostrare vicinanza ed affetto. Anche il conflitto nel cuore dell’Europa ha sicuramento avuto un duro impatto per i giovani.

I nostri adolescenti sono esausti. Non è questo il mondo in cui avremmo voluto che trascorressero la loro infanzia, la loro adolescenza. Un disagio profondo oggi li accompagna. Hanno bisogno di una guida; di riscoprire la bellezza della “relazione”.
Sappiamo che la nostra psiche è attrezzata per sostenere lo stress, ma solo se ha una durata definita e contenuta ( non oltre uno – due mesi), dopo di che lo stress diventa cronico alterando inevitabilmente il nostro funzionamento psichico.
Recenti indagini statistiche ci dicono che circa il 40% della popolazione italiana manifesta uno stato di preoccupazione come prevalente emozione negativa e poco meno della metà uno stato d’ansia costante; all’interno di questa cornice, molte persone hanno manifestato il bisogno di rivolgersi ad uno specialista della salute mentale, ed il 65% di questi avevano un’età compresa tra i 18 ed i 29 anni. Affrontiamo questo tema così delicato con la D.ssa Lilian Zotti, dottore in Psicologia e il Dottor Lauro Quadrana, Dirigente I° livello presso il Day Hospital Psichiatrico Adolescenti presso UOC a neuropsichiatria infantile, Azienda Policlinico Umberto I di Roma, Università degli studi di Roma, “La Sapienza”. Responsabile del servizio di Psicodiagnostica.
Dottoressa Zotti, qual’è la fascia di età maggiormente colpita?
Sono prevalentemente i giovani adolescenti tra i 13 ed i 19 anni ad essere preoccupati per la guerra, manifestando un forte disagio per l’orrore del coinvolgimento dei civili, di cui il 75% circa teme un coinvolgimento dell’Italia o dell’inizio della terza guerra mondiale.
Questa è la fotografia che accompagna tale momento storico, in cui gli adolescenti sembrano oscillare tra empatia e compassione, tra il vissuto quotidiano di fallibilità e sensazione costante di inadeguatezza, una generazione affamata di certezze, e al tempo stesso speranzosa per il futuro. La maggior parte degli adolescenti ha una visione complessivamente negativa del futuro ed in particolare l’80-90% sperimenta ansia e preoccupazione che è maggiore tra le ragazze e con l’aumentare dell’età.
Due anni di pandemia tra Dad, paura dei contagi, incertezze su quello che il futuro avrebbe riservato a familiari, amici, parenti, a cui si aggiungono oggi anche questi ulteriori giorni di tensione a causa di quanto sta succedendo tra Russia e Ucraina.
Ogni età è focalizzata su uno spazio di vita in transito tra una condizione esistenziale superata e una successiva che non è stata ancora pienamente raggiunta. Ma mentre infanzia, età adulta e vecchiaia mantengono ben chiari gli elementi caratterizzanti che le contraddistinguono, l’adolescenza è considerata un passaggio tout court che caratterizza in modo intrinseco i giovani individui in working progress verso l’acquisizione dei ruoli adulti.
In questo vissuto di transitoria impotenza appresa, ogni adolescente reagisce diversamente a seconda delle proprie caratteristiche temperamentali e di quelle contestuali (famiglia, quartiere, status socio-economico).
Una attenta analisi psicologica del contesto storico e sociale in cui ci troviamo, deve far riflettere sul perché ci sia un aumento tanto imponente di disturbi depressivi (uno su quattro), d’ansia (uno su cinque) ma anche dei disturbi d’attenzione o di quelli antisociali.
Allo stesso tempo i dati IARD 2021 ci mostrano come siano proprio gli adolescenti ed i giovani adulti la fetta di popolazione che sembra avere strategie di coping più funzionali. L’Istituto IARD ad aprile 2020 aveva previsto una maggior resilienza nei giovani di oggi che, “vaccinati” alla precarietà esistenziale, sembrano avere più strumenti per reagire poiché nati in un contesto storico imprevedibile come quello, per quanto unico, delineatosi negli ultimi anni e cresciuti in un tempo d’incertezza.
L’allentamento delle restrizioni a seguito della pandemia da covid 19 è stato accompagnato da un evento parimenti destabilizzante: l’inizio della guerra.”

Dottor Quadrana, in che modo questo evento, in questo determinato momento storico (così unico e delicato) può aver influito sulla salute mentale degli adolescenti? Sotto quali aspetti potrebbe manifestarsi il disagio che ne deriva nel qui e d’ora, o nelle future generazioni?
“Prima di rispondere a queste domande dobbiamo cercare di capire in che contesto emotivo ci trovavamo prima dell’avvento della guerra.
Le pandemie sono riconosciute dalla comunità scientifica come possibili eventi traumatici; quello che ci siamo trovati ad affrontare con il covid-19 ha tutte le caratteristiche di un “trauma collettivo”. Si tratta infatti di un evento prolungato e inaspettato, una vera e propria crisi ambientale che non genera vergogna o umiliazione e dunque può essere narrata sebbene al tempo stesso si cerchi di evitarla perché riaccende vissuti troppo dolorosi, come abbiamo visto nelle statistiche sopra-citate, ad essa sono associate alterazioni dell’arousal, pensieri ed emozioni negativi creando uno stato di estrema confusione e incertezza.
L’evento in questione ha provocato cambiamenti permanenti sulla struttura della società e nel tessuto della comunità, ha avuto un impatto permanente sulle relazioni, le politiche, i processi di governo ed alcune norme sociali. L’impatto insomma è stato pervasivo e la nostra realtà è stata sconvolta.
La letteratura scientifica, sottolinea come gli effetti da long-covid, di cui si parla tanto, sono da individuare anche su un piano psicologico. Che sia stata infettata dal virus o no, ogni adolescente ha vissuto per mesi in una condizione alienante, surreale e inaspettata che ha avuto effetti sulla sua salute psichica; è corretto parlare di un’emergenza psicologica tanto quanto è stato corretto parlare di emergenza pandemica.
Una gradualità nel ripristino di una vita sociale, per gli adolescenti, avrebbe potuto avere un ruolo di sostegno all’elaborazione di una perdita concreta ed affettiva: di una fase di vita, di una vita sociale, di un’evasione da un contesto familiare più o meno conflittuale, di momenti dedicati alla scoperta di sé e ad un tentativo di individuazione e ricerca di un ruolo nella società.
L’elaborazione dei traumi collettivi è complessa e richiede un tempo lungo e la possibilità di vivere un senso di sicurezza che ci permettano di riconoscere l’esistenza dell’impatto del trauma collettivo e di rispondervi trovando un equilibrio e ricostruendo una nuova identità singola e collettiva in una nuova realtà esterna ed interna prendendoci cura dei nostri bisogni e carico dei cambiamenti sopraggiunti.
Il modo di affrontare questo sconvolgimento della realtà circostante e di quella interna è variabile anche in base alle proprie risorse interne di ognuno di noi.
Ritorniamo al nostro quesito: la guerra alle porte dell’Europa è un evento di valenza molto simile a quello pandemico, sopraggiunto in un momento estremamente delicato in quanto deputato all’elaborazione del precedente trauma e dall’esperienza di incertezza che esso portava con sé.
Si è creata dunque una sovrapposizione di due traumi creando un collasso della sicurezza dell’ambiente esterno ed un blocco del senso di sicurezza che ogni adolescente dovrebbe sperimentare.
La difficoltà nell’osservare questa situazione però sta nella gestione della doppia complessità degli equilibri contestuali esterni e identitari interni di ogni adolescente. I due eventi in questione si sono venuti a sommare sulle gambe già precarie di un dis-equilibrio esistenziale dei giovani adolescenti che allo stesso tempo sono abituati a vivere nel cambiamento che in loro è presente su un piano corporeo, neurale, motivazionale e identitario.
Come in un campo di guerra la casa abitata da adolescenti diventa un fronte in cui improvvisamente scoppia il bisogno di affermare le proprie idee e la propria identità. Ogni adolescente inscena un disperato tentativo di mostrare la propria forza fisica e intellettiva in un teatro di immaturità affettiva dove viene misurato quel confine tra libertà e paura di perdere i vantaggi di quando era più piccolo.
Gli adolescenti anche prima dell’arrivo della guerra si trovavano immersi in un vissuto di incertezza e conflitto, la guerra ha messo anche il resto della popolazione “adulta” in questo stato emotivo non essendo più in grado di essere quel solido sostegno di cui ogni adolescente avrebbe bisogno e che puntualmente mette alla prova.
I giovani adolescenti, durante il lockdown, sono stati privati di uno dei bisogni fondamentali in quest’età evolutiva, quello di condividere con i pari le esperienze di crescita uniche in questa fase di vita. Sono ora immersi in un contesto depressogeno e ansiogeno determinato da due eventi consecutivi fortemente stressanti, carichi di un vissuto di continua esposizione al rischio e di un senso di negata possibilità di vivere la propria crescita serenamente.
Avere fiducia nel futuro, nei rapporti umani e nelle proprie capacità costruttive adesso non è un’impresa facile. Non a caso, nei sondaggi emerge che l’emozione dominante di ragazzi e ragazze è la rabbia. Di per sé questo dato non dovrebbe spaventarci, anzi, non c’è niente di più fisiologico della sperimentazione della rabbia dinnanzi alla frustrazione di bisogni.
Nella maggior parte dei casi la rabbia sta a indicare che dentro di noi c’è una ferita, e tutti questi avvenimenti recenti ne hanno certo comportate molte. Il punto è che cosa se ne fanno i giovani di questa rabbia. La rabbia può essere sinonimo di autolesionismo (sempre più frequente), perdita di speranza e di voglia di stare al mondo, disinvestimento affettivo e distruzione.
Per quasi un adolescente su due (ma il dato cresce tra le ragazze tra i 14 e i 19 anni) nell’ultimo periodo è anche calato il tono dell’umore e salita la sfiducia. Se il tono dell’umore si abbassa, aumenta la rabbia, che è la reazione immediata davanti a ciò che si vede e si sperimenta. Questo sentimento può anche essere una giusta risposta, dettata dalla sensibilità e dal senso di giustizia. Questo sentimento può quindi essere affrontato nel dialogo intergenerazionale. Si può cercare insieme una soluzione ai problemi, senza lasciarsi sopraffare dalle sensazioni negative.
Ci troviamo adesso con una popolazione in un costante stato di vigilanza che oscilla tra strategie di evitamento ed il tentativo di elaborazione attraverso un’iper-narrazione degli eventi (l’Eurobarometro ha infatti messo recentemente in luce il fatto che l’Italia sia il Paese con maggior informazione sulla guerra in Ucraina), non ci aspettiamo però una generazione destinata al collasso bensì una generazione che ha sperimentato una sofferenza e dalla quale saprà crescere.
Se ci abituassimo a pensare ad un long covid psicologico e a tenere sempre in mente questa chiave di lettura degli eventi più complessa (bio-psico-sociale), sarebbe più facile pensare ed attuare forme di prevenzione ed interventi mirati.”

La riflessione che ne consegue è cosa può fare il mondo adulto per sostenere bambini e adolescenti in questo periodo drammatico?
Sicuramente offrire spazio e tempo per accogliere il malessere, per discutere e pensare insieme sapendo che la geografia – vicinanza ai teatri di guerra – costituisce una dimensione ineludibile.
Per fortuna, però, qualcosa di positivo c’è; sono gli stessi giovani a non nascondere di aver bisogno di supporto. Anzi, lo chiedono a gran voce: il 58% andrebbe di corsa dallo psicologo se potesse permetterselo o se le sedute fossero gratuite. Se si chiede alle ragazze tra i 17 e i 19 anni la platea sfiora quota 70%, mentre i coetanei maschi sembrano aver metabolizzato meglio le difficoltà del periodo, visto che “solo” una metà scarsa di loro (48%) si rivolgerebbe immediatamente a uno psicologo se gli venisse offerto. Leggermente più in difficoltà i ragazzi più piccoli: nella fascia 14-16 anni sfrutterebbe l’occasione il 56%; anche qui, però sono le ragazze a mostrarsi più ricettive, con oltre il 60% che parlerebbe volentieri con uno specialista.
Come adulti, l’obiettivo è quello di non alimentare ulteriori lockdown interiori, offrendo loro spazi di ascolto dedicati, lavori da fare in squadra, spiegazioni su ciò che sta avvenendo.”

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