Tribunale di Velletri, parcheggi discriminatori: gratis per avvocati e magistrati e a peso d’oro per i cittadini

Tribunale di Velletri e il caro parcheggi per i cittadini


C’era una volta il Palazzo di Giustizia. Un edificio imponente, piazzato nel cuore pulsante di Velletri, affacciato su piazza Giovanni Falcone come un vecchio generale in pensione che osserva in silenzio la truppa passare. Eppure, oggi quel palazzo non è più solo un luogo di diritto. È diventato un simbolo — inquietante — di uno Stato che predica giustizia e poi ne sottrae l’accesso. Uno stallo, appunto. Anzi, tanti. Stalli di sosta e stalli di pensiero.

Mentre i lavori di ristrutturazione procedono — lenti, rumorosi, imperscrutabili come sempre — fuori dalle aule si combatte un’altra battaglia. Non a colpi di codici, ma di parcheggi. Sì, avete capito bene: parcheggi. Spazi pubblici, suolo pubblico, sottratti in nome di una “sicurezza” che nessuno ha avuto l’onestà di spiegare davvero. Una parola svuotata, abusata, incollata come un’etichetta su ogni decisione che non si ha il coraggio di giustificare.

Con un colpo di penna — una delibera, la n. 90 del 24 aprile 2024 — la Giunta Comunale ha consegnato al Tribunale, alla Procura, alle forze dell’ordine, un pezzo di città. E poco importa se quel pezzo era nostro. Se ci camminavamo, se ci parcheggiavamo per andare a lavoro, a testimoniare, a chiedere giustizia. Ora c’è una sbarra. Automatica. Fredda. Inesorabile. E oltre quella sbarra, il cittadino non passa più.

E allora ci si chiede: sicurezza da chi? Dai cittadini stessi? O forse da quella parte di realtà che turba la quiete di chi, dietro un badge ministeriale, si ritiene immune alla fatica quotidiana? Perché questo è accaduto: si è tracciata una linea, netta, tra “noi” e “loro”. Tra i titolati a varcare il confine e i comuni mortali lasciati a rigirarsi nel traffico e a contare monetine per un’ora di sosta — che ora costa il doppio.

Due euro all’ora. Una cifra che urla vendetta, se si considera che il raddoppio serve solo a compensare i mancati incassi di chi ha concesso la gratuità a una casta burocratica autoreferenziale. E allora l’utente finale — quello che il sistema dovrebbe servire — paga il prezzo di una scelta opaca, arrogante, forse illegittima.

Già, illegittima. Perché se ci fosse ancora un senso nelle parole, basterebbe leggere la sentenza n. 635/2020 del TAR Sardegna. Basterebbe aprire il Codice della Strada, articolo 7, comma 1, lettera d), per sapere che quegli stalli possono essere riservati solo a categorie tassativamente indicate: polizia, vigili del fuoco, disabili. Non a dirigenti. Non a magistrati. Non a funzionari. Non a membri dell’ufficio di presidenza del consiglio dell’ordine degli avvocati locale. Non a chi confonde la comodità personale con il funzionamento dell’apparato statale.

E se qualcuno ancora volesse brandire la vecchia circolare ministeriale n. 1525 del 1981 come scudo, sappia che è solo carta ingiallita. Superata. Travolta da norme nuove, da un diritto che si è evoluto — almeno sulla carta — verso una maggiore chiarezza, una maggiore equità.

Ciò che resta, invece, è una domanda pesante: chi decide, oggi, come si distribuisce lo spazio pubblico? Chi ha il potere di delimitare l’accesso alla giustizia anche fisicamente, con una sbarra e una tariffa?

Il diritto dovrebbe essere un ponte, non un cancello. Una strada aperta, non una zona ZTL per privilegiati. Eppure, a Velletri, il messaggio è chiaro: se non hai il pass, se non appartieni agli “eletti” resti fuori. La città diventa un puzzle dove ogni tessera è marchiata da un interesse, da una comodità, da un privilegio.

Ma un tribunale senza cittadini è un guscio vuoto. E una giustizia che chiude le porte — anche solo del parcheggio — tradisce se stessa.

Ma c’è di più. C’è lo sfregio del contesto. Perché questa è Velletri, signori. Velletri: terra un tempo famosa perché ci spuntavano i funghi, ora ci spuntano i cartelli. Cartelli ovunque. Riservato. Vietato. Proibito. Autorizzati soltanto. È la nuova vegetazione urbana, coltivata a furia di ordinanze e concessioni che puzzano di sopruso. E in mezzo, il popolo. Il popolo trattato come il nulla. Come il servo della gleba nella Roma del Marchese del Grillo.

«Io so’ io e voi non siete un ca…». Eh già. Il grillo salta, e anche qui qualcuno zompa — sulle regole, sulla decenza, sul buon senso.

«La verità fa male, lo so. Ma è solo dicendola che possiamo ancora salvarci da questa lenta e irreversibile decomposizione della democrazia. Anche quando si parla di parcheggi.»

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